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Allo sportello arriva Mario Spariscono le code, risposte h24

Mario è nato a Bergamo all’epoca della migrazione e integrazione nel gruppo Ubi delle Target Bridge Institutions (Nuova Banca
Marche, Nuova Banca Etruria e Nuova Carichieti) che hanno portato a 22.518 i dipendenti (oggi sono 21.124, ma a fine piano
industriale, nel 2020, dovranno essere 19.505). Tutto a un tratto, le barriere di quel processo “tecnologico” sono calate.
Come, ce lo racconta il chief information officer del gruppo e direttore generale di Ubi sistemi e servizi (che da sola impiega
oltre 2mila persone), Marco Cecchella. La svolta è rappresentata dall’arrivo di «Mario, una chatbot nata solo per l’assistenza
interna» e per risolvere tutte le problematiche tecniche generate dai diversi sistemi.

A ogni problema Mario era lì con la soluzione pronta. «Visto l’apprezzamento che ha riscosso, la chatbot è stata sviluppata
anche per l’assistenza esterna, quella verso i clienti – continua Cecchella -. L’analisi dei big data ci ha mostrato che vi
è una mole imponente di domande standard che arrivano ai nostri contact center. Possono riguardare la password dimenticata
piuttosto che una difficoltà a fare un bonifico. Abbiamo constatato che genera più efficienza l’uso dell’intelligenza artificiale
per rispondere a queste richieste». Con vantaggi sul business perché in questo modo i bancari vengono alleggeriti di quell’operativà
ripetitiva e di basso livello che, tra l’altro, non è redditizia per la banca, e «possono dedicarsi maggiormente agli ambiti
commerciali». Che sono invece quelli più redditizi.

Alla periferia di Bergamo, in un palazzo reso ancora più discreto e insospettabile dall’anonimato della sua architettura,
150 tra informatici, ingegneri, statistici, matematici, criminologi e avvocati si siedono insieme ai tavoli a discutere le
nuove frontiere della tecnologia bancaria, testano le nuove cash machine, monitorano le app e il loro “apprezzamento” nel
dark e deep web. L’ingegner Matteo Baido, responsabile It innovazione di Ubi sistemi e servizi fa da cicerone in un saliscendi
di piani che confonde. I sistemi di sicurezza sono moderni e agili ma le barriere di ingresso si annunciano subito alte. Firma
dei moduli, badge, codici. Si passa uno alla volta per entrare nella server farm celata in stanze dove potenti macchine (replicate
in 5 sedi per garantire la business continuity e la disaster recovery in caso di attacchi informatici) fanno il back up dei
dati su tre livelli: disco, nastro e caveau. Già, il caveau. Siamo pur sempre in una banca. Ai tempi dell’always on e della
digitalizzazione, tra i preziosi da difendere ci sono non solo denaro, lingotti, pietre, gioielli e quadri ma soprattutto
i dati. Finché non si varca la soglia della Digital factory è difficile esercitare il pensiero fino ad immaginare che dietro
le quinte di una banca ci sia una “fabbrica” con macchine tanto sofisticate quanto rumorose ed energivore, proprio come nell’industria
pesante. La Digital factory del gruppo Ubi apre un mondo che è quanto di più lontano dalla banca dei ragionieri, dei contabili
e dei gestori. Una fabbrica dove «il gruppo investe costantemente in innovazione a 360° su temi diversi, dal digitale ai big
data, dalla sicurezza alla compliance, dal commerciale al legale», dice Cecchella. Di persone con una formazione bancaria
pura qui ce ne sono ben poche, la quotidianità è fatta di un misto di scoperta e innovazione da un lato e difesa dall’altro.

Gdpr, General Data Protection Regulation, è un acronimo che in poche ore sentiamo citare almeno un centinaio di volte. Non
c’è solo la sicurezza che sposa le diverse normative e rende l’innovazione utilizzabile, c’è anche quella antihacker. Gli
attaccanti, più noti come hacker, sono sempre in agguato e ne sa qualcosa la squadra che si occupa di sicurezza e business
continuity che deve “scartarli”. Ecco allora irriducibili smanettoni che per formazione sono fisici, matematici, criminologi
che studiano i movimenti nel dark web e nel deep web, per capire, per esempio, quanto le app del gruppo sono “consultate”
e “appetibili”, cercando di entrare nella forma mentis dell’hacker che fa degli attacchi una sfida personale. O, in molti
casi, un business. Con pagamenti in bitcoin. In caso di attacco, spariscono orari e luoghi, i tempi di risposta della struttura
devono essere rapidissimi. Entro un paio di ore va informata Bankitalia, entro il minor tempo possibile va individuata una
strategia di recupero. Sugli attacchi poche parole, certo è che il gruppo dichiara di non essere mai entrato in emergenza.

Sbirciando fuori dalle finestre non c’è niente che può fare immaginare di non essere alla periferia di Bergamo, ma almeno
il racconto ci porta altrove. «Abbiamo fatto un grande investimento nello scouting delle nuove tecnologie, spesso messe a
punto soprattutto dalle start up del fintech, attraverso la nostra squadra che si muove in giro per il mondo – dice Cecchella
-. L’intelligenza artificiale, insieme alla robotica sta cambiando il modo di fare banca e noi dobbiamo viaggiare con due
anni di anticipo rispetto all’evoluzione del settore. Ci sono paesi indiscutibilmente avanzati, ma che hanno un assetto normativo
tanto diverso da non potere rappresentare un modello per l’Italia e l’Europa. I modelli a cui guardare sono senza dubbio nel
mondo anglosassone ma non solo. Londra, dove ha luogo la manifestazione del consorzio R3 è sicuramente una piazza da frequentare
per tutta l’innovazione tecnologica e digitale, allo stesso modo in cui Tel Aviv lo è per la sicurezza».

In questi giorni il viaggio in anticipo sul tempo è intorno allo specchio emozionale che proprio oggi riunirà in una sala
della fabbrica digitale di Ubi le diverse anime della banca: prodotto, commerciale, organizzativo, applicativo, legale, compliance,
sicurezza. Ci saranno informatici, ingegneri, data scientist, legali della generazione che si è formata nel mondo Google,
Amazon, Facebook, Apple, sempre più attenti e interessati al mondo dei servizi finanziari. Lo specchio emozionale ha le sembianze
di un vero e proprio specchio capace di interpretare il mood del cliente quando entra e quando esce dalla banca. Potrebbe
essere utile per migliorare il servizio? Allo stesso modo del riconoscimento vocale o di quello idiometrico? Forse sì, forse
no, l’innovazione tecnologica chiede investimenti, tanti (dal 2016 il gruppo ha puntato su questo capitolo oltre 90 milioni
di euro), e una certa dose di rischio. «Sono frontiere che ci interessa esplorare, come tutto quello che può arricchire e
facilitare il rapporto con il nostro cliente», spiega Cecchella. Un rapporto che è molto meno scontato che in passato e dove
l’innovazione diventa così un modo per intercettare bisogni e comportamenti. Un passaggio fondamentale ai tempi dell’omnicanalità
e della mobilità continua. Voilà, anche le porte del retro della banca si aprono ai nuovi mestieri.

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