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La ricetta del guru Usa anti-tasse arriva in Italia con ‘Mercatus’

Mercatus
Non solo modello danese. In Italia c’è anche chi guarda al liberismo puro cui s’ispirò lo “shock fiscale” dell’America di Reagan (e ultimamente di Trump) come esempio da seguire per riaccendere i motori dell’economia nel post-Covid. È stato Draghi a mettere in cima al suo discorso programmatico una “riforma organica” del fisco italiano che, mantenendo aliquote Irpef progressive, renda il sistema delle tasse più equo, efficiente e moderno. In quell’occasione aveva peraltro citato esempi come quello danese, lasciando spazio a una serie d’interrogativi sulla possibile riforma che hanno continuato a tener banco nonostante l’emergenza sanitaria. Sullo sfondo di questo dibattito, è nato l’Istituto Mercatus, il primo think tank liberista italiano con la missione esplicita – si legge sul sito web – di “promuovere proposte fondate sui principi di libertà, mercato, concorrenza, tutela della libertà, del risparmio e della libera intrapresa”. Cosa c’entra tutto questo col fisco? Oltre alle tipiche attività di ricerca economica e politologica, Mercatus intende incoraggiare una cultura d’ispirazione einaudiana, che si rifà ai principi dell’atlantismo, del federalismo e del cosiddetto Stato “leggero” e poco interventista quando si tratta di mettere le mani in tasca ai cittadini. La novità più curiosa dell’iniziativa è, a ben vedere, lo strumento del Taxpayer Protection Pledge, importato di sana pianta da Americans for Tax Reform (Atr), il potente gruppo di pressione statunitense ultraconservatore nato negli anni ’80, con il placet di Ronald Reagan, per proteggere i contribuenti americani dai temutissimi aumenti di aliquote. Il “pledge” americano, letteralmente la promessa, funziona su base volontaria e in via preventiva: in Usa, chiunque voglia candidarsi alle cariche federali o statali tra le fila del partito repubblicano è chiamato, prima ancora di essere eletto, a prestare giuramento all’Atr firmando un documento ufficiale d’impegno a non votare mai provvedimenti che implichino, in modo diretto o indiretto, un aumento d’imposte. Il “pledge” lanciato nel 1985 dal fondatore di Atr, il guru anti-tasse Grover Norquist, viene acquisito da Mercatus come strumento per la raccolta e la fidelizzazione dei consensi d’area liberale, stando a quanto annunciato dall’ex parlamentare, oggi presidente del nuovo think tank, Daniele Capezzone, che ha presentato ufficialmente l’iniziativa anti-tasse insieme ad altri nomi conosciuti del mondo accademico e politico: Federico Punzi, giornalista di Radio Radicale e direttore della rivista “Atlantico”, Barbara Boschetti, docente in diritto amministrativo, Gabriele Fava professore ed esperto giuslavorista, oggi nuovo commissario Alitalia, e il politologo Lorenzo Montanari, italiano, residente a Washington e vicepresidente per gli Affari Internazionali di Atr. A differenza del “pledge” americano, il giuramento in Italia è proposto tanto ai candidati delle prossime tornate elettorali, che ai politici già eletti (n.d.r. Giulio Centemero, capogruppo della Lega in Commissione Finanze, è stato tra i primi a firmare il patto seguito, tra gli altri, dal ministro al Turismo Garavaglia). L’obiettivo è riuscire a mobilitare gli italiani prendendo nei loro confronti – come Norquist insegna – pochi impegni, ma precisi e di facile riscontro. Per la cronaca, è stata questa strategia dell’impegno circoscritto – in due parole, della ‘‘guerra alle tasse’’ – ad aver trasformato il leader di Atr in uno degli uomini non eletti più potenti degli Usa: dopo decenni di campagne “no-tax” a difesa del contribuente, Norquist ha infatti raggiunto una popolarità e una forza persuasiva tali da farlo diventare una personalità tanto temuta quanto ascoltata nel partito di Lincoln. Anche in occasione dell’ultima tornata elettorale, lo scorso novembre, l’85% dei candidati del Grand Old Party si è presentato all’elettorato dopo aver firmato la promessa di opporsi a qualsiasi aumento della pressione fiscale. La storia repubblicana che Norquist ama ricordare, confermerebbe puntualmente che firmare il patto pre-elettorale e rispettare i termini è “premiante”. Ma siamo sicuri che in Italia la promessa sortirebbe gli stessi risultati? Lo chiediamo direttamente a Norquist, ideatore del primo Taxpayer protection pledge in tempi in cui i tagli alle aliquote e alla spesa pubblica della Reaganomics cominciavano a regalare effetti benefici sulla crescita Usa. La sua risposta parte dalla spiegazione empirica di come il patto con l’elettorato ha funzionato finora negli Usa dove “già nel 1986, un anno dopo la nascita del pledge, un centinaio di deputati e venti senatori repubblicani avevano firmato la nostra promessa, nel 1988 la firmò anche l’allora vicepresidente Bush (senior) vincendo facilmente le primarie contro il senatore Dole, che invece si era rifiutato di firmare”. “Quando Bush nel 1990 (n.d.r. sulla scia della guerra nel Golfo) ruppe la promessa alzando le tasse, fu poi sconfitto da Clinton e allora tutti i Repubblicani compresero la lezione: se firmi la promessa, vinci le primarie e se la firmi prima delle elezioni politiche, vinci anche quelle. Infine, se tieni fede alla promessa anti-tasse sarai rieletto”. In sessantadue anni di storia Usa, cioè “dal 1932 al 1994 (n.d.r. anno in cui il 90% del GOP s’impegnò contro gli aumenti fiscali) i repubblicani, sottolinea Norquist, hanno ottenuto la maggioranza in entrambe le Camere del Congresso solo quattro anni, ma da quando il partito repubblicano è diventato per davvero il partito che non alzerà mai e poi mai le tasse, è riuscito a conquistare il controllo di Camera e Senato ben sette volte, e a conquistare la maggioranza in almeno una delle Camere tre volte (n.d.r. di fatto riuscendo comunque a bloccare molti dei provvedimenti delle amministrazioni democratiche) nel frattempo i democratici sono riusciti a controllare entrambi i rami del Parlamento solo tre volte”. Ma questa è storia americana. In Italia, un paese profondamente diverso dagli Usa, questa “promessa preventiva” potrebbe essere altrettanto efficace? “La disciplina di partito è molto più forte in Europa e in Italia che negli Stati Uniti e questo non è un vantaggio da poco. Se un partito s’impegnasse contro gli aumenti fiscali e poi vincesse le elezioni dovrebbe perorare la causa con forza e fare veramente in modo che le tasse non aumentino, ne’ a livello centrale ne’ a livello locale”. Il metodo di Atr, è già stato esportato all’estero e imitato da partiti o movimenti non americani? “Il nostro pledge è stato già sperimentato in Grecia, in Argentina e in Cile anche l’ex Premier britannico, il conservatore David Cameron, vinse le elezioni dopo aver promesso di tagliare le tasse e congelare le aliquote (n.d.r. il cosiddetto “tax lock” proposto dal 2015 al 2020)”. La promessa Tory di smantellare tredici anni di politiche pubbliche laburiste fece poi i conti con una promessa ben più pericolosa, quella di chiedere ai britannici se restare o no nell’Ue, mossa che segnò la fine della parabola politica di Cameron. Ma questo è un altro discorso… Restando in Italia, c’è un movimento o un leader di partito che idealmente è più vicino alle idee di libero mercato sostenute da Atr sostiene? “So che nel vostro paese ci sono partiti del centrodestra sensibili all’idea di promuovere una riforma fiscale che semplifichi il sistema di tassazione e alleggerisca le aliquote. Per questo sono ben felice della nascita di Mercatus”. I tempi non sono senz’altro maturi per capire come il metodo Usa veicolato da Mercatus funzionerà concretamente, sempre che lo strumento dell’impegno preventivo possa diventare “metodo” in un Paese come il nostro, con dinamiche politiche diversissime da quelle americane. Resta anche da vedere come le promesse preventive no-tax potrebbero conciliarsi con l’enorme peso del debito che grava sull’Italia. Certo è che non appena i riflettori sul caso europeo AstraZeneca si saranno abbassati, Draghi dovrà affrontare il problema di come riformare il fisco, destreggiandosi tra istanze per rimodulare le aliquote e per non gravare ulteriormente su contribuenti che già oggi non riescono più a far fronte agli oneri fiscali. E in questo difficile esercizio si dovrà confrontare anche con la posizione ultraliberista di Mercatus.