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Victor Massiah: «Ubi valuterà altre aggregazioni. Disponibile a restare al vertice»

«In questo momento non abbiamo trattative in corso, ma credo che in prospettiva in Italia sia inevitabile una nuova fase di
concentrazione del sistema bancario. Il rischio Italia? Confido che la rimodulazione della manovra di bilancio che il Governo
sta definendo in questi giorni, riporti fiducia tra le imprese e gli investitori». L’amministratore delegato di Ubi Banca Victor Massiah non sottovaluta, come tutta la business community, i rischi di recessione a cui va incontro l’Italia, ma invita
a guardare il bicchiere mezzo pieno.

L’economia è in frenata. Teme che l’Italia finisca in recessione?

Incidono fattori esterni e interni. La guerra dei dazi ha influenzato il rallentamento dell’economia mondiale e l’export italiano
ne ha risentito. Nel terzo trimestre l’Europa è cresciuta dello 0,2%, mentre la Germania ha registrato un calo dello 0,2%.
Un gap dovuto in gran parte alla frenata dell’industria automobilistica tedesca, a cui sono agganciati importanti distretti
industriali del Nord Italia. Si tratta di capire, e lo vedremo nei prossimi mesi, se il rallentamento della Germania è strutturale
o se è dovuto a un temporaneo rallentamento del settore automotive.

Pesano anche fattori interni. Non crede?

Non c’è dubbio che le incertezze sulle politiche del Governo abbiano avuto come conseguenza una frenata della fiducia e degli
investimenti delle imprese. Facciamo il tifo perché la rivisitazione della manovra di bilancio in corso in questi giorni da
parte del Governo permetta di ricostruire la fiducia necessaria alla ripartenza dell’economia.

Con l’economia che frena e il rischio Italia che permane sui mercati, le banche italiane si avviano verso un 2019 difficile.
Partiamo dai crediti in sofferenza. Voi siete tra coloro che ne hanno venduti di meno. Perché?

Perché ne avevamo di meno e perché abbiamo tassi di recupero interno molto elevati, con due team distinti tra sofferenze e
incagli. Ma non escludiamo cessioni di blocchi di Npl, se vi saranno prezzi interessanti. A brevissimo annunceremo la vendita
della parte di crediti unsecured senza la garanzia dello Stato dopo la recente operazione con Gacs per 2,75 miliardi lordi e vedrete che l’impatto complessivo sul Cet1 sarà migliore di quanto ipotizzato finora. Non abbiamo
svenduto perché abbiamo un bilancio solido. Il che ci ha permesso di conservare tutti i “gioielli di famiglia”, dai prestiti
personali al factoring fino all’asset management italiano e cinese. È un elemento distintivo che sul mercato italiano abbiamo
conservato solo noi e Intesa Sanpaolo.

Tra i rischi che il mercato teme per le banche nel 2019 vi sono anche i BTp in portafoglio e il rifinanziamento dei bond.
Come pensate di comportarvi?

L’esposizione ai titoli di Stato italiani è pari al 63% dei titoli in portafoglio e abbiamo già annunciato al mercato di voler
accentuare la diversificazione con un obiettivo del 50%. Aggiungo però che, a questi prezzi, se i provvedimenti del Governo
dovessero essere coerenti con le attese del mercato, i BTp potrebbero diventare un’occasione. Come accadde a chi li acquistò
quando lo spread era a 500.

Come rifinanzierete i bond in scadenza nel 2019?

Siamo in grado di essere, passatemi il termine, autarchici. Abbiamo in scadenza 6 miliardi, di cui 4 con la clientela retail.
Nel pieno rispetto della Mifid 2 abbiamo già ripreso il collocamento dei retail bond e siamo dunque autosufficienti. Ovviamente,
confidiamo che il mercato istituzionale si riapra.

Crede che una nuova Tltro da parte di Bce sia necessaria al sistema bancario?

Noi ci siamo organizzati con impieghi dalle scadenze analoghe a quelle della Tltro e quindi non abbiamo problemi. Osservo
che uno degli effetti non previsti della Tltro è stata la generazione di una guerra dei prezzi dei prestiti, con tassi bassi
e non remunerativi per le banche. Non sono in grado di prevedere cosa farà Bce, ma forse in caso di nuova Tltro il tasso di
finanziamento sarà meno favorevole di quello attuale.

Le banche italiane sono in ritardo rispetto al resto d’Europa negli investimenti per il digital banking. Serve una svolta
che porti anche al taglio dei costi del banking tradizionale?

Anche in Italia l’offerta di prodotti c'è, i tempi di adozione sono in linea con l’evoluzione del Paese in ambito digitale.
Gli investimenti da fare sono comunque importanti ma non insostenibili, almeno per noi. Tenendo presenti due elementi: da
un lato, non dobbiamo e non vogliamo far scappare i nostri clienti dalle filiali; dall'altro è costoso ma obbligatorio far
convergere sui nuovi sistemi le attuali legacy, a partire dai conti correnti. Quanto al taglio dei costi e degli sportelli,
procediamo secondo gli obiettivi stabiliti. Inserendo però nuove professionalità in banca – laureati in fisica, matematica
e ingegneria – per sviluppare nuovi business e nuove tecnologie.

Veniamo più nello specifico a Ubi. Avete cambiato la governance abbandonando il sistema duale. Si diceva che fosse un modello
adatto alle aggregazioni alla pari. Via il duale, via il proposito di fare alleanze?

Il duale era uno dei tre pilastri usati per facilitare l’aggregazione che ha dato vita a Ubi, insieme al modello federale
e alla forma cooperativa della banca. Venuta meno la cooperativa con la riforma delle Popolari, abbandonato il modello federale
con le fusioni infragruppo che hanno portato alla banca unica, abbiamo convenuto che il duale poteva essere superato.

Con quali conseguenze sui progetti di aggregazione? Periodicamente siete accreditati sul mercato di una fusione con Mps e,
più riservatamente, di un’alleanza con BancoBpm per costruire il grande polo bancario del Nord Italia. Cosa c'è di vero?

In questo momento non abbiamo davvero nessuna trattativa in corso. Ma ribadisco che in prospettiva sarà inevitabile una nuova
fase di concentrazione nel sistema bancario italiano. Per quanto ci riguarda prenderemo in considerazione solo operazioni
che, oltre all'incremento dimensionale, siano caratterizzate dalla creazione di valore per i nostri azionisti e dalla semplicità
della governance.

Grandi merger a parte, due banche sono esplicitamente sul mercato a caccia di un compratore: CreVal e Carige. Siete interessati?

No.

La vecchia governance cooperativa ha portato in eredità a lei ed altri consiglieri di Ubi un rinvio a giudizio al Tribunale
di Bergamo. Preoccupato della sentenza?

Chi ha la coscienza a posto, non ha nulla da temere.

In primavera l’assemblea di Ubi rinnoverà il consiglio di amministrazione. Lei è disponibile per un nuovo mandato?

Sì. Sono legato a Ubi Banca sia dal punto di vista professionale che affettivo. Ovviamente decideranno gli azionisti, visto
che il nostro statuto prevede che siano loro e non il cda uscente a proporre la lista degli amministratori.

Non crede che la lista del cda, ormai molto diffusa tra le banche italiane, sia preferibile per gruppi che ormai stanno evolvendo
verso la public company?

In assoluto, non credo che esista un sistema da preferire. Teniamo conto che normalmente i fondi d’investimento non vogliono
prendere il controllo di una banca. Nell’assemblea di Ubi del 2016, i fondi avevano la maggioranza assoluta dei voti ma poi
si limitarono per scelta loro a essere rappresentati in cda da una minoranza. Da manager posso dire che l’interazione con
i tre rappresentanti dei fondi in cda è stata costruttiva per la banca.

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