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Alibaba, il maxi buy-back non ferma la caduta in Borsa

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Timori su rilievi antitrust e della banca centrale. Con le rivali Tencent, il gigante del food delivery Meituan e JD.com, persi 200 miliardi di dollari nelle sedute da giovedì.

Giornata nera, alla Borsa di Hong Kong, per il colosso cinese dell’e-commerce Alibaba, che ha guidato un sell-off dei big del listino tech cinese innescato dai timori di rilievi e nuove misure da parte dell’antitrust e della banca centrale. Il gruppo fondato dal miliardario Jack Ma (ricavi per 22,8 miliardi di dollari a settembre, +37% sul 2019; 56 miliardi per tutto il 2019, +40% sul 2018) non è riuscito ad arginare il calo neppure annunciando di aver incrementato il programma di riacquisto di azioni (buy-back) da 4 miliardi a 10 miliardi di dollari fino alla fine del 2022. Alibaba e rivali come Tencent, il gigante del food delivery Meituan e JD.com, hanno perso qualcosa come 200 miliardi di dollari nelle sedute da giovedì.

I big del tech, un tempo osannati per essere i portabandiera dell’ascesa economica della Cina, ora si trovano ad affrontare una pressione crescente da parte dei regolatori preoccupati dalla velocità con cui hanno accumulato centinaia di milioni di utenti e acquisito influenza su quasi ogni aspetto della vita quotidiana. Influenza che rischia di sfuggire al potere della politica a Pechino.

Alibaba è sospettata di pratiche monopolistiche. Secondo l’antitrust cinese la presunta condotta di monopolio includerebbe l’attuazione di un «accordo di negoziazione esclusiva» che consiste nella richiesta ai venditori di offrire i loro prodotti sulle sue piattaforme appunto in maniera esclusiva. Una pratica oggetto di reclamo nel 2017 da parte della rivale JD.com, ma che Alibaba aveva negato. Il caso si era chiuso in assenza di giudizio.

Quanto alla banca centrale cinese ha imposto ad Ant Group – la società fintech di Alibaba, la cui Ipo (attesa come la più grande della storia, con una valutazione intorno ai 300 miliardi di dollari, vicina a quella delle più grandi banche d’affari americane) era stata sospesa dalle autorità con una stretta regolatoria a sole 48 ore dal via, lo scorso 3 novembre – di regredire alle proprie origini di provider di servizi di pagamento e di ristrutturare i settori più remunerativi, dai prestiti al ramo assicurativo, alla gestione dei patrimoni. La banca centrale di Pechino ha convocato i vertici di Ant nel weekend e chiesto loro di «rettificare» le attività giudicate «illegali». Ant ha promesso piena collaborazione. E pensare che soltanto fino a poche settimane fa la fintech di Alibaba si era trovata a un passo dal raccogliere in Borsa 34,5 miliardi (più del gigante del petrolio saudita Saudi Aramco, che a dicembre con la sua quotazione aveva raccolto 29,4 miliardi) a fronte di tremila miliardi di dollari di domanda, praticamente il Pil del Regno Unito.

Il titolo di Alibaba ha ceduto l’8% a 210 dollari di Hong Kong, pesando sul listino principale Hang Seng, che ha ceduto lo 0,27%. «L’indagine su Alibaba non indica che la Cina abbia cambiato il suo atteggiamento favorevole e incoraggiante verso le piattaforme Internet», ha affermato prima di Natale in un editoriale il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale di informazione del Partito comunista cinese. L’indagine, invece, «contribuirà a garantire la salute e lo sviluppo del settore Internet». Il gioco di potere della leadership comunista con i suoi colossi hi-tech può riservare ancora molte sorprese.

Di certo Jack Ma paga caro il suo discorso del 24 ottobre al Bund Summit di Shanghai, quando osò attaccare le autorità di vigilanza e il sistema bancario. Il businessman aveva dichiarato che l’eccessiva attenzione dei regolatori ai rischi poteva soffocare l’innovazione e che il rischio sistemico non è il tema, in Cina. Piuttosto, il rischio più grande è «l’assenza di un ecosistema finanziario» e le banche cinesi sono come «banchi dei pegni». Non è possibile «usare i metodi del passato per gestire il futuro», aveva detto il fondatore di Alibaba. Parole troppo indigeste per l’establishment.