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Mercati, Federico Imbert (Credit Suisse): «Il 2019 ruoterà sul voto Ue»

«I mercati sono in una fase in cui c’è molta liquidità inutilizzata, Wall Street rallenta e si è molto cauti sull’Europa a causa delle permanenti incertezze geopolitiche: Brexit, il caso Francia originato dai gilets jeaunes, le tensioni tra governo italiano e Ue. Nel 2019 credo che il vero catalizzatore per i mercati saranno le elezioni europee
di fine maggio e l’assetto che l’Europa avrà dopo il voto. Se emergerà un assetto pro-business, per l’Europa si possono aprire
grandissime opportunità di ripresa favorendo anche la creazione di campioni paneuropei in settori lasciati finora al dominio
americano. A partire da quello tecnologico e dei big data, considerato ormai il petrolio dei tempi moderni».

Federico Imbert è uno dei più noti ed esperti banchieri d’investimento italiani. Nato a Napoli, 67 anni, dopo una lunga carriera internazionale
in JP Morgan, vissuta tra le City di Londra, New York e Milano da anni è il numero uno per l’Italia di Credit Suisse. In
questa intervista a Il Sole 24 Ore, Imbert ha accettato di fare il punto sulle prospettive per il 2019 dei mercati e dell’m&a.

Per capire come sarà il 2019, diamo prima uno sguardo al 2018. Anno orribile per i mercati o ci può essere di peggio?

È stato un anno difficile, soprattutto la seconda parte. L’80% delle 35 principali asset class ha chiuso in negativo e a Wall
Street la performance del Dow Jones in dicembre è stata la peggiore dal 1931. L’elemento su cui riflettere è che il mercato azionario – di solito abituato a comprare nei momenti di storno, come è avvenuto
negli ultimi sette anni – questa volta non è rimbalzato. Per una serie di fattori che riguardano i timori, a mio avviso non
sempre giustificati, sull’andamento dell’economia globale nel 2019.

Da almeno due mesi le grandi banche d’affari agitano lo spettro della recessione negli Usa e non solo. Nel frattempo Fed e
Bce, con tempi e modalità diverse, abbandonano la politica dei tassi a zero. Sta finendo la lunga fase del Toro per l’azionario?

I segnali di rallentamento dell’economia globale sono molteplici, penso alla debolezza delle vendite al dettaglio in Cina
e agli indicatori di frenata del Pil in Europa e negli Usa. Il mercato a fine 2018 li ha giudicati in modo definitivo come
segnali di un nuovo trend negativo. Da parte di tutti gli strategist sono stati sviluppati modelli che predicano una nuova
recessione, anche se solo il 18% di loro la giudica probabile nei prossimi due anni. Diciamo che è all’opera una “fabbrica
delle attese” di recessione, che ormai ha già fatto presa sul mercato. E in una fase di incertezza, tutti vogliono restare
liquidi.

Fuga dall’azionario. Per investire dove?

Negli Usa, dove il mercato americano viene da quasi 10 anni di crescita, il sentimento del retail verso l’azionario è sceso
ai minimi dal 2016, come dimostra l’indice dell’American association of individual investors. Inoltre i riscatti dai fondi
azionari negli Usa nelle ultime settimane sono stati i più ampi dell’intero 2018, mentre in Europa vi sono stati outflow dall’azionario
per 40 settimane di seguito. Aggiungo, e lo dico perché Credit Suisse è tra i leader mondiali nel trading, che in questo contesto
anche gli hedge hanno scaricato equity nel timore di trovare poi mercati meno liquidi. Dove andrà questa liquidità? In parte
sui titoli a reddito fisso, e credo che, in assenza di shock al momento imprevedibili, anche i Btp nel 2019 possono tornare
a essere interessanti dati i rendimenti che offrono. Ma molto dipenderà dal grado di fiducia degli investitori nell’Europa
che, con le elezioni di maggio, calamiterà le attenzioni del mondo.

Quali saranno le principali tendenze nel mercato del merger and acquitions? E quali saranno i settori più interessanti?

Nel settore industriale proseguirà la tendenza alla creazione di campioni europei, con fusioni cross border come quella tra Atlantia e Abertis. Penso soprattutto al settore dei big data e del fintech e in particolare ai sistemi di pagamento, in cui anche l’Italia
può giocare un ruolo importante. Altro tema del 2019 riguarderà la cessione di asset non strategici da parte di gruppi che
si concentreranno sempre più sul core business. I fondi di private equity globali, che si stima abbiano un trilione di dollari
di dollari da investire, saranno i principali acquirenti di asset a prezzi che inevitabilmente risentiranno delle ridotte
valutazioni di mercato. Un fattore, quest’ultimo, che porterà anche all’intensificarsi di operazioni di buy back e delisting
da parte degli azionisti di maggioranza. Da ultimo, credo che i fondi attivisti -abbiamo visto Elliott già all’opera nel 2018
in Italia e Francia – cercheranno altre opportunità in Europa anche nel 2019.

In Italia il settore bancario è tornato sotto pressione, principalmente a causa dell’erosione del capitale dovuta al calo
dei prezzi dei titoli di stato italiani. Prevede che sarà un anno difficile per il settore?

Il tema del capitale delle banche rimane centrale per i mercati, anche perché è soggetto a una regolamentazione non assestata
in modo definitivo. Per quanto riguarda l’Italia, per ora l’esito della trattativa tra commissione Ue e governo sulla manovra
di bilancio ha evitato lo scenario peggiore: lo spread Btp-Bund non è salito ai livelli temuti e si è invece stabilizzato
in area 270. Questo rende meno vulnerabile il sistema bancario italiano che, con la fine del Qe e il “fading” della Tltro,
potrà affrontare con maggiore tranquillità l’incremento della raccolta di debito già nella prima parte del 2019.

Il 2019 sarà per le banche italiane ed europee l’anno del ritorno a fusioni ed acquisizioni? La riduzione dello stock di Npl
favorirà questo processo?

A livello europeo non credo che ci saranno operazioni di m&a cross border finché non ci sarà allineamento regolamentare, a
partire dalla garanzia unica dei depositi, e dei bilanci bancari nei vari paesi. Venendo all’Italia, considero inevitabile
una ripresa del processo di concentrazione che coinvolgerà tutti gli istituti di dimensioni inferiori ai due colossi Intesa
Sanpaolo e UniCredit. Il driver delle fusioni sono le sinergie: oltre a quelle di costo, cui guardano in prima battuta gli
investitori, credo che peseranno molto quelle da ricavi. Per questo ritengo che un ruolo aggregante lo avranno quelle banche
che hanno superato gli anni della crisi riuscendo a mantenere le proprie “fabbriche prodotto”. In generale, il grande lavoro
già effettuato per la riduzione degli Npl ha rafforzato il sistema e creato le condizioni per nuove aggregazioni.

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